La Voce del (nuovo)Partito comunista italiano

n° 1 - marzo 1999

 

La settima discriminante

Quale partito comunista?

 

Un partito che sia allÂ’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dellÂ’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria

 

Indice:

 

Una introduzione necessaria

 

Sulla forma della rivoluzione proletaria

 

Sulla natura del nuovo partito comunista.

 

NOTE

 


 

Un partito che sia allÂ’altezza del compito che il procedere della seconda crisi generale del capitalismo e la conseguente situazione rivoluzionaria in sviluppo pongono ad esso e che tenga pienamente conto dellÂ’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria

 

Una introduzione necessaria

 

Tra le Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista operanti in Italia questa formula è stata posta al centro del dibattito sul partito già nel 1995, con l’opuscolo pubblicato dai CARC in occasione del centenario della morte di F. Engels.(1) Nel dibattito tra le FSRS nessuno ha contestato apertamente e direttamente questa formulazione. In realtà vi è però una divergenza che pesa nel lavoro che le FSRS conducono per la ricostruzione del partito comunista e nelle linee che lo guidano. La divergenza è stata ben espressa nel recente (15 novembre 1998) Coordinamento Nazionale della CCA (Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati) da G. Riboldi che ha affermato: “Noi oggi non siamo in una situazione né rivoluzionaria, né prerivoluzionaria”. Questa sua affermazione è strettamente connessa al suo ripetuto richiamo, sempre nello stesso contesto (la relazione che ha presentato al Coordinamento), alla “stabilità di questo potere politico”, al “programma della stabilità capitalistica” che sarebbe impersonato dal governo D’Alema, al “processo di normalizzazione [che] rischia di affermarsi stabilmente in assenza di opposizione sociale che ne ostacoli la realizzazione”, alla “concertazione neocorporativa [che] rischia di funzionare regolarmente e di stabilizzarsi in assenza di soggetti politici e sindacali che rifiutano e combattono l’accettazione dei parametri economici, politici e istituzionali imposti dagli accordi di Maastricht”: in sintesi, alla stabilità che secondo GR hanno gli attuali regimi borghesi e l’assetto delle loro relazioni internazionali, stabilità che solo la lotta (delle classi o dei soggetti politici e sindacali: qui la differenza non ha importanza) potrebbe scuotere.

Il merito della relazione di GR è di aver posto nettamente e apertamente un’obiezione che in altri progetti, proposte e relazioni (ad esempio nella relazione presentata allo stesso Coordinamento da Leonardo Mazzei) è sottintesa o solo accennata di sfuggita. Facciamo quindi riferimento alla relazione di GR per esaminare anche le obiezioni di altri.

G. Riboldi fa alcune altre affermazioni preziose per questa analisi. Dice: “L’aspetto principale della fase ... non è solo la “crisi ideologica del riformismo”(2), ma [anche] la “crisi economica del capitalismo” e l’accentuarsi delle contraddizioni dei poli imperialisti”. E ancora: “Sarebbe un errore credere che la crisi e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita di per sé possono condurre a una mobilitazione rivoluzionaria delle masse”.

Osserviamo ora gli avvenimenti reali alla luce e con lo strumento del materialismo dialettico. La storia degli ultimi decenni mostra

- che da un certo periodo in qua, all’incirca dalla metà degli anni ‘70, il meccanismo della valorizzazione del capitale ha incominciato a perdere colpi;(3)

- che da qui sono nate l’eliminazione delle conquiste di benessere e di civiltà che le masse popolari avevano strappato nei trent’anni precedenti (“i gloriosi trenta” della pubblicistica borghese)(4), la ricolonizzazione dei paesi semicoloniali (piano Brady e simili) e lo sfruttamento della loro popolazione e delle loro risorse ambientali fino all’estinzione, il crollo (1989) e la devastazione dei paesi socialisti che il lungo dominio dei revisionisti moderni aveva reso economicamente, finanziariamente e culturalmente dipendenti dall’imperialismo, il gonfiarsi del capitale finanziario fino a sovrastare e schiacciare il capitale produttivo, la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” - le regole di salvaguardia del pubblico interesse,(5) la corsa alla costituzione di un numero ristretto (poche unità) di monopoli mondiali nei settori più importanti, le lotte sempre più aspre tra i gruppi imperialisti, la crescita delle differenze economiche tra paesi, regioni, gruppi e classi;

- che da qui è nata anche la crisi di tutti i regimi politici dei paesi imperialisti e del sistema delle loro relazioni internazionali (cioè la crisi politica);

- che da qui sono venute anche la crisi culturale che sconvolge miliardi di uomini da un capo allÂ’altro del mondo, lÂ’incertezza del futuro, lÂ’insicurezza generale, la precarietĂ , la mancanza di stabilitĂ , proprio di quella stabilitĂ  contro cui G. Riboldi e soci chiamano a lottare come Don Chisciotte chiamava a lottare contro i mulini a vento.(6)

Dove porta questo corso delle cose? Esso accentua la contraddizione tra borghesia imperialista e masse popolari e le contraddizioni tra i gruppi imperialisti. Le masse sono costrette a cercare nuove soluzioni ai loro problemi di vita e di lavoro, dato che la borghesia imperialista distrugge essa stessa (nei paesi imperialisti, nelle colonie, nei paesi socialisti) le vecchie soluzioni. Sono cioè costrette a mobilitarsi. Noi abbiamo dato un nome a questa mobilitazione delle masse indotta dalla crisi generale del capitalismo, lÂ’abbiamo chiamata “resistenza delle masse popolari al procedere della crisi”.(7) Che la si chiami come si vuole. Ă